Minima Cardiniana 394/5 | Arte, Arte e ancora

2022-10-07 18:03:57 By : Mr. Long Hu

Domenica 2 ottobre 2022, Santi Angeli Custodi

ARTE, ARTE E ANCORA ARTE A SPASSO NELL’ARTE: L’ALCHIMIA DELLA CAPPELLA SANSEVERO DI SANGRO ED IL CRISTO VELATO di Eleonora Genovesi

“L’arte non ha epoca. È l’emozione che dorme su guanciali d’eternità” (Antonio Aschiarolo)

E Dio sa se in questi tempi bui abbiamo bisogno di provare emozioni positive. Oramai i canali informativi sono divenuti dei veri e propri cahier de doléance, c’è solo l’imbarazzo della scelta tra guerra, alluvioni, morti sul lavoro, femminicidi e tanto altro ancora. E allora ancora una volta ecco l’Arte venirci in soccorso. Condivido il pensiero di Arte di Antonio Ascarolo: Arte come emozione… Perché se l’Arte non suscitasse emozioni che Arte sarebbe? E che emozione si prova entrando nella Cappella Sansevero di Sangro. Eh sì perché si entra in un’altra dimensione, una dimensione atemporale, sospesa… Si passa dalla Napoli festosamente chiassosa, al silenzio rotto solo dallo Stabat Mater dei musicisti napoletani settecenteschi Manna, Santangelo e Sellitto, eseguito dal gruppo Abchordis Ensemble. Perché, fra le tante, nel corso del Settecento, Napoli ha iniziato anche ad imporsi come capitale della musica, attirando la presenza dei più importanti artisti del periodo, attratti, sia dal prestigio della coeva produzione teatrale, sia dall’importanza delle opere sacre create al fine di rappresentare la variegata struttura che accompagnava i riti liturgici nelle varie chiese, confraternite, monasteri e ordini ecclesiastici della città partenopea. Situato nel cuore del centro antico di Napoli, il Museo Cappella Sansevero è un gioiello del patrimonio artistico internazionale. Creatività barocca e orgoglio dinastico, bellezza e mistero s’intrecciano creando qui un’atmosfera unica, quasi fuori dal tempo. Tra capolavori come il celebre Cristo velato, la cui immagine ha fatto il giro del mondo per la prodigiosa “tessitura” del velo marmoreo, meraviglie del virtuosismo come il Disinganno ed enigmatiche presenze come le Macchine anatomiche, la Cappella Sansevero rappresenta uno dei più singolari monumenti che l’ingegno umano abbia mai concepito. Un mausoleo nobiliare, un tempio iniziatico in cui è mirabilmente trasfusa la poliedrica personalità del suo geniale ideatore: Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero. Sul chi fosse si è detto tanto: esoterista, inventore, anatomista, militare, alchimista, massone, mecenate, scrittore, letterato… Ma chi era veramente Raimondo Di Sangro Principe di Sansevero? Personalità estremamente eclettica e poliedrica, Raimondo si dedicò a sperimentazioni nei più disparati campi delle scienze e delle arti, dalla chimica all’idrostatica, dalla tipografia alla meccanica, raggiungendo risultati che apparvero “prodigiosi” ai contemporanei. Conosciuto anche per antonomasia come “il Principe”, il nome di Raimondo è indissolubilmente legato alla Cappella Sansevero, il mausoleo di famiglia che riorganizzò e abbellì, in cui l’opera d’arte più significativa è certamente il celebre Cristo velato. Raimondo di Sangro alimentò, intorno alla sua persona, un vero e proprio mito destinato a durare nei secoli. Con la sua poliedrica attività, ancor oggi avvolta da un alone di mistero, egli incarnò i fermenti culturali e i sogni di grandezza della sua generazione. Intanto, dopo esser divenuto accademico della Crusca con il nome di Esercitato, Raimondo ottenne il consenso di Benedetto XIV per poter leggere i libri proibiti: gli furono quindi aperte le porte di numerose biblioteche, dove divorò gli scritti di Pierre Bayle, le opere degli illuministi radicali e dei philosophes francesi, testi fitti di suggestioni alchemiche e massoniche e i trattati scientifici più disparati. Nel 1737 Raimondo aderì pure alla Massoneria, un’associazione che provvedeva al riverbero degli ideali dell’Illuminismo europeo, venendo iniziato nella Loggia del duca di Villeroy a Parigi. Nel 1744 divenne venerabile maestro della Loggia la Perfetta Unione, ed il 10 dicembre del 1747 fondò nel suo Palazzo di Famiglia una “Cerchio Interno” alla sua Loggia, che definì Rosa d’Ordine Magno, dalla quale prese vita il Rito Egizio Tradizionale. Nel 1750 divenne gran maestro della Massoneria napoletana. Ma torniamo a quella che è l’emblema della figura di Raimondo di Sangro: la Cappella Sansevero. Le origini della Cappella Sansevero sono legate a un episodio leggendario. Narra, infatti, Cesare d’Engenio Caracciolo nel testo Napoli Sacra del 1623 che, intorno al 1590, un uomo innocente, trascinato in catene per essere condotto in carcere, passando dinanzi al giardino del palazzo dei di Sangro in piazza San Domenico Maggiore, vide crollare una parte del muro di cinta di detto giardino e apparire un’immagine della Madonna. Egli promise alla Vergine di donarle una lampada d’argento e un’iscrizione, qualora fosse stata riconosciuta la propria innocenza: scarcerato, l’uomo tenne fede al voto. L’immagine sacra divenne allora meta di pellegrinaggio, dispensando molte altre grazie. Poco dopo, anche il duca di Torremaggiore Giovan Francesco di Sangro, gravemente ammalato, si rivolse a questa Madonna per ottenere la guarigione: miracolato, per gratitudine fece innalzare, lì dove era apparsa per la prima volta la venerabile effigie (oggi visibile in alto sull’Altare maggiore), una “picciola cappella” denominata Santa Maria della Pietà o Pietatella. Fu però il figlio di Giovan Francesco, Alessandro di Sangro patriarca di Alessandria, che intraprese nei primi anni del ’600 grandi lavori di trasformazione e ampliamento, modificando l’originario sacello in un vero e proprio tempio votivo destinato a ospitare le sepolture degli antenati e dei futuri membri della famiglia. L’attuale assetto della Cappella e la quasi totalità delle opere in essa contenute sono, però, frutto della volontà di Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero, che a partire dagli anni ’40 del ’700 riorganizzò la Cappella secondo criteri del tutto nuovi e personali. Raimondo di Sangro, infatti, che intendeva rendere la cappella un mausoleo degno della grandezza del proprio casato, ingaggiò pittori e scultori rinomati in grado di arricchirla con sculture di grandissimo pregio. La cappella è articolata in un’unica navata, che presenta su ognuno dei lati 4 archi a tutto sesto che introducono in altrettante cappellette laterali, archi sormontati da un cornicione realizzato interamente con del mastice ideato da Raimondo di Sangro. L’area del presbiterio, situata in fondo alla chiesa e occupata dall’altare maggiore è separata dalla navata da un ulteriore grande arco. La Cappella è coperta da una volta a botte contenente 6 finestre strombate dalle quali entra la luce. L’abside è invece sormontata da un affresco che mediante un trompe-l’oeil o illusione ottica che voglia dirsi, ricrea la presenza di una cupola. Più recente è invece, la realizzazione del pavimento in cotto napoletano, ultimata nel 1901, con i colori giallo e azzurro del casato dei Di Sangro vicino allo stemma. Quello precedente, con il motivo a labirinto ideato dallo stesso Raimondo Di Sangro andò distrutto alla fine del XIX secolo, ma è possibile vederne ancora delle parti vicino alla tomba dello stesso principe. Da qui si accede alla Cavea Sotterranea, un locale progettato dallo stesso Raimondo di Sangro al cui interno ci sarebbe dovuto essere il Cristo Velato. All’ingresso di questa stanza, ultimata dopo la sua morte, il Principe fece posizionare un’iscrizione che recita: “Chiunque tu sia, o viandante, cittadino, provinciale o straniero, entra e devotamente rendi omaggio alla prodigiosa antica opera: il tempio gentilizio consacrato da tempo alla Vergine e maestosamente amplificato dall’ardente principe di Sansevero don Raimondo Di Sangro per la gloria degli avi e per conservare all’immortalità le sue ceneri e quelle dei suoi nell’anno 1767. Osserva con occhi attenti e con venerazione le urne degli eroi onuste di gloria e contempla con meraviglia il pregevole ossequio all’opera divina e i sepolcri dei defunti, e quando avrai reso gli onori dovuti profondamente rifletti e allontanati”. Questa Cavea Sotterranea, anziché custodire la statua del Cristo Velato, contiene delle inquietanti ed enigmatiche Macchine Anatomiche: due scheletri, di un uomo e di una donna, ancora avvolti dalla rete dell’apparato circolatorio, conservato in perfette condizioni. Le Macchine furono realizzate dal medico siciliano, Giuseppe Salerno, sotto l’egida di Raimondo di Sangro: ancora oggi il procedimento utilizzato resta un ulteriore mistero a carico della infausta fama del Principe. Ovviamente le cose non stanno così, ma ciò conferma quanto sia enorme l’alone di mistero emanato dalla personalità carismatica di Raimondo di Sansevero. Ad esaltare e riassumere la poetica della meraviglia racchiusa nella Cappella Sansevero, ecco la triade ideale di altissimo virtuosismo artistico composta dalla statua del Disinganno, opera di Francesco Queirolo dedicata ad Antonio, padre di Raimondo, dalla statua della Pudicizia, anch’essa mirabilmente velata e frutto della maestria dello scultore veneto Antonio Corradini, dedicata alla madre del Principe, Cecilia, morta nel darlo alla luce e dal Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino, punto focale dell’insieme. Iniziamo il nostro percorso con il Disinganno realizzato tra il 1753 e il 1754 dallo scultore genovese, Francesco Queirolo chiamato a Napoli dal Principe Raimondo di Sangro proprio per la fama della sua straordinaria abilità tecnica che in quest’opera raggiunge il culmine del virtuosismo tardo Barocco dello scultore. Nell’ambito delle virtù della Cappella Sansevero Il Disinganno ha due peculiarità: la prima è che essa – come trasmesso da scritti dell’epoca – è stata completamente inventata dal Principe di Sansevero, mentre è noto che per le altre allegorie del tempio barocco il Principe Raimondo di Sangro ebbe come punto di riferimento un repertorio iconografico tratto dal testo tardo cinquecentesco (1593) dal titolo “L’iconologia” di Cesare Ripa, ristampato più volte nei secoli successivi. Nell’Iconologia Ripa offre ai suoi lettori un repertorio di immagini simboliche ed allegoriche. La seconda peculiarità dell’opera riguarda invece il soggetto cui Il Disinganno è dedicato. Come già detto il Principe Raimondo volle innalzare l’opera alla memoria del padre Antonio di Sangro Duca di Torre Maggiore e questo fa sì che Il Disinganno tra tutte le virtù della Cappella Sansevero sia l’unica ad essere dedicata alla memoria di un uomo e non di una donna del nobile casato. Antonio di Sangro ebbe una vita avventurosa, disordinata, ma alla fine della sua esistenza si pentì degli errori commessi e prese i voti sacerdotali. E Francesco Queirolo rappresenta l’uomo nell’atto di divincolarsi dalla rete dell’inganno e del peccato, aiutato nell’azione da un “genietto” alato sul cui capo arde una fiamma, la fiamma dell’intelletto, grazie alla quale ci si affranca dalle passioni mondane rappresentate invece dal globo terrestre. Perché i piaceri mondani sono visti come un inganno, un peccato, da cui l’uomo può liberarsi solo attraverso la fede e l’intelletto. L’altissimo virtuosismo del Disinganno è evidente nella rete realizzata con un’eccezionale abilità tecnica, tanto da sembrare appartenere allo stesso, unico blocco di marmo cui appartiene l’intero gruppo. Nell’opera si colgono dei riferimenti alla massoneria poiché questa statua è chiaramente il simbolo dell’iniziazione alla Massoneria di cui faceva parte … anzi ne era il capo … il Principe Raimondo. Infatti con la frase “Qui non vident videant” e con i passi biblici incisi nel libro aperto … si fa apertamente riferimento alle iniziazioni massoniche. L’incredibile perizia tecnica e la potenza del messaggio del Disinganno furono tali da sollecitare la sensibilità e l’immaginario di celebri personalità come quella dell’editore illuminista Fortunato Bartolomeo De Felice, ammirazione, stupore ed emozione suscitati ancora oggi da quest’opera del crepuscolo barocco. La nostra visita prosegue con la Pudicizia (anche detta Pudicizia velata), opera del veneto Antonio Corradini, dedicata a Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, madre di Raimondo di Sangro, che morì nel dicembre del 1710, meno di un anno dopo la nascita del figlio. La scultura raffigura una donna completamente coperta da un velo semitrasparente, cinta in vita da una ghirlanda di rose, che ne lascia intravedere le forme e in particolare i tratti del viso. Essa è considerata il capolavoro del Corradini. Con tutta probabilità la statua è anche un’allegoria alla sapienza, con un riferimento alla velata Iside, dea egizia della fertilità e della scienza iniziatica. Due opere estremamente significative che mostrano la storia di una famiglia distrutta dalla morte della giovane donna e dalla dissolutezza di un uomo che poi però è riuscito a ritrovare la retta via attraverso la fede.

E, infine, al centro della navata della Cappella ecco balzare agli occhi del visitatore attonito il Cristo velatouna delle opere più famose e suggestive al mondo con il suo nucleo magnetico e ipnotizzante. Il Principe Raimondo Sansevero richiese espressamente all’artista massone Antonio Corradini una “statua scolpita in marmo di Nostro Signore Gesù Cristo morto, ricoperto da una sindone di velo trasparente dello stesso marmo”. La morte di Corradini sopraggiunta nel 1752 impedì all’artista la realizzazione dell’opera, della quale però aveva lasciato lo straordinario bozzetto in terracotta visibile al Museo di San Martino, vero testamento spirituale a suggello di quel geniale, indissolubile connubio tra l’Arte e gli ideali massonici celebrato dalla Cappella gentilizia. Ed allora Raimondo di Sangro incaricò il giovane artista Giuseppe Sanmartino di realizzare una statua di marmo, scolpita a grandezza naturale, raffigurante il Cristo morto “coperto da un sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco della statua”. Il giovane Sanmartino non si rifece al bozzetto di Corradini, ma dette un’impronta estremamente personale. Sebbene il messaggio stilistico nel Cristo del Sanmartino sia come nella Pudicizia di Corradini affidato al velo, l’intensità ed i fremiti di stampo barocco del Cristo velato sono tipicamente sanmartiniani. Lo scultore Sanmartino seppe riprodurre così perfettamente la sottigliezza e la trasparenza del velo che avvolge il corpo di Gesù da alimentare ulteriormente il mito del Principe alchimista, il quale avrebbe addirittura compiuto un complesso processo di “marmorizzazione” del tessuto. Ma questa è solo una leggenda. La verità sta nella grande sensibilità del Sanmartino che si traduce in un sublime virtuosismo che gli consente di esaltare con i ritmi delle pieghe del velo la profonda sofferenza patita da quel corpo scarnificato e martoriato poggiato su strati di stoffa. Ed ecco come l’emozione che dorme su guanciali d’eternità di Antonio Ascarolo prendere vita in questo corpo. La vena gonfia sulla fronte che sembra quasi fremere, le ferite lasciate dai chiodi sui piedi e sulle mani, il costato scavato ma disteso grazie alla liberazione dalla morte, vogliono e riescono ad evocare tutta la drammaticità della sofferenza patita da Cristo che diviene il simbolo del riscatto dell’umanità. E la solennità delle note dello Stabat Mater sembrano accentuare il dramma umano della morte di Cristo… È tutto così terribilmente ma anche stupendamente reale… Lo spettatore è preso da un coacervo di emozioni difficilmente spiegabili, ma che lasciano un segno. La Cappella Sansevero è dunque la vittoria ultima e definitiva di Raimondo sulla caducità dell’esistenza: la magia di un luogo immobile che conserva vita e bellezza al di là del tempo. Il Gran Maestro, orchestratore ed artefice della partitura ideale delle opere custodite nella Cappella, è un Principe “maledetto”, Raimondo di Sangro, primo Gran Maestro della massoneria partenopea, il quale nell’epoca dei Lumi seppe indossare senza alcuna paura le vesti dell’alchimista, dello stregone, dello scienziato, del visionario, restituendo ai contemporanei e ai discendenti un’eredità fatta di mito e leggenda, esaltata dalla magnificenza di capolavori assoluti di creatività tardo barocca. Sfidare la morte, vincerla, umiliarla e farsene padrone: questo il sogno proibito di Raimondo, novello diabolico Faust nel sentimento popolare.

L’arte ci avvicina ad uno status divino, l’artista quando opera compie una prova di creazione… Schiller dice: “L’arte è la mano destra della natura”. Io dico: l’arte è la mano di Dio che scrive.